Caporalato made in Italy e femminicidi
Siamo sinceri con noi stessi: esistono morti di serie A e morti di serie B
Il caso di Naceur Messaoudi, un bracciante agricolo tunisino che lavorava in Italia, nel viterbese, è passato quasi sotto silenzio, così per altri casi registrati come “difetti in itinere” come sostiene lucidamente Antonello Mangano in un suo bellissimo e toccante articolo di qualche anno fa. La morte di Naceur non è avvenuta oggi, ma il 21 luglio, mentre raccoglieva le angurie, ed è stata causata, a quanto si apprende dalle accuse, non dal caldo eccessivo di quei giorni ma da sfruttamento e negligenza da parte degli imprenditori che lo avevano assunto. Sfruttamento è una parola che negli ultimi anni fa sempre più rima con Made in Italy, ma per buona pace di tutti, consumatori e sfruttatori patentati ad ogni livello, è meglio parlare d'altro per non disturbare i “manovratori”.
Gli imprenditori italiani, padre e figlio che lo avevano assunto, sono stati arrestati con l'accusa di omicidio colposo, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (in parole povere “caporalato”). Naceur lavorava fino a dodici ore al giorno, carico di angurie pesanti, in condizioni estreme senza pause a temperature fino a 40 gradi. Soffriva di pressione alta, e i datori di lavoro non avevano effettuato i controlli sanitari obbligatori. Dopo essersi sentito male, i datori di lavoro non hanno chiamato i soccorsi immediatamente ma lo hanno scaricato davanti all'ospedale Belcolle di Viterbo e si sono dati alla fuga. Due brave persone insomma. Ma le cause del sistema pseudo-criminale al quale i due mascalzoni si sono adattati è ben più grande di loro e si insinua in oliati e rugginosi meccanismi della grande distribuzione organizzata e dei prezzi che impone al mercato.
Naceur non è morto per la pressione alta, non è morto per il caldo: è morto per sfruttamento, negligenza e, aggiungo, disumanità. Secondo le indagini gli imprenditori-mascalzoni si sarebbero approfittati “del suo stato di bisogno”. Che cos'è approfittarsi del bisogno di un altro essere umano se non disumanità? 57 anni, questa era l'età di Naceur.
In Italia circa 500 mila migranti lavorano nel settore agricolo (2), in condizioni spesso critiche. Il disagio non è solo quello di una paga misera, ma anche quello sanitario e medico, con diversi casi di diabete, tubercolosi, ipertensione e qualche caso di HIV (3).
In un articolo pubblicato sul British Medical Journal, autorevole rivista scientifica inglese, nel 2019 si è rilanciato un dato che fa riflettere e rabbrividire: sarebbero oltre 1.500 i braccianti agricoli extracomunitari morti in 6 anni in Italia a causa del loro lavoro. Se paragoniamo questi dati ai femminicidi, che nel 2023 sono stati poco più di 100, ci accorgiamo dell'enorme sproporzione mediatica alla quale assistiamo. Sto parlando di numeri, sia ben chiaro. Nessun morto ha più valore di un altro e a fronte dell'esposizione mediatica che i femminicidi ricoprono sui giornali, social e televisioni, dovremmo aspettarci almeno lo stesso grado di attenzione per i braccianti agricoli deceduti mentre lavorano. Ma così evidentemente non è.
Quando ci fu la manifestazione per Naceur, dopo la sua morte, a Viterbo si radunarono in piazza poco più di un centinaio di persone. Provate a raffrontare quella partecipazione con il funerale di Giulia Cecchettin, barbaramente uccisa dall'ex fidanzato poco tempo fa. Direi che non ci sono paragoni. L'immagine di seguito parla chiaro.
Ci vorrà tempo, molto tempo, affinché una nota rivista proponga in prima pagina la foto di un lavoratore, di una lavoratrice o di una bracciante uccisa dal caporalato e dallo sfruttamento.
Cosa rende una vicenda più meritevole di attenzione? Non sono i numeri, visto che i femminicidi in un anno sono, in media, la metà delle morti nei campi agricoli. Credo piuttosto si tratti di consapevolezza e di esposizione mediatica. Ad esempio la genesi del termine femminicidio risale agli anni '70 del secolo scorso negli Stati Uniti, per cui riconosciamo il decorso storico e di lunga data di quel concetto e della sacrosanta battaglia culturale che vi sta dietro. Non si tratta “solamente” dell’omicidio di una persona di sesso femminile, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura istituzionalizzata da secoli. Le battaglie dei movimenti femministi culminano oggi nel riconoscimento di quel tipo specifico di delitto, inscritto in un contesto culturale e sociale ben preciso. Non troviamo un termine simile per l'omicidio di un bracciante agricolo, che sia straniero o italiano, assunto regolarmente o in nero. Propongo braccianticidio.
Oltre alla consapevolezza, dall'altra parte, troviamo l'esposizione mediatica che influenza la partecipazione emotiva delle persone. Se cerchiamo su Google-Notizie le parole 'Giulia Cecchettin' appaiono 13.000 risultati, mentre se cerchiamo 'Naceur Messaoudi' ne otteniamo soltanto 10. Se facciamo la prova con la parola 'femminicidio' il motore di ricerca ci rimanda 8.700 risultati e se cerchiamo 'morto bracciante' ne rimanda circa 200. Un divario così enorme tra una notizia ed un'altra può e deve farci riflettere, non per abbassare lo sguardo su un tipo di delitto, ma per alzarlo sull'altro, quantomeno a fronte dei numeri di casi accaduti che, nel secondo, sono oltretutto statisticamente più alti.
Secondo una stima, in Italia esisterebbero oltre 50 baraccopoli sparse in tutto il territorio dove vivrebbero circa 100.000 migranti con salari da fame (1). Anche se a morire sono sopratutto italiani: come sostiene Mangano nel suo articolo “nella fascia del sommerso - sempre relativa al 2015 - i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81 per cento)”. I dati sono impressionanti se pensiamo che molto spesso i dati ufficiali registrati dall'Inail sono sottostimati e spesso distanti dalla realtà.
L'enorme divario tra gravità del problema e indifferenza mediatica è un grido di allarme che richiede una risposta urgente, non soltanto giudiziaria, ma anche culturale e mediatica. Partendo non solo da serie riforme legislative – sia in materia di caporalato e lavoro sommerso, sia in materia di salario minimo per i lavoratori agricoli – ma anche attraverso programmi di educazione civica, nuove norme che incentivino le aziende agricole ad adottare pratiche etiche ed umane, promozione di nuove pratiche per il coinvolgimento attivo delle comunità locali e di tutti i consumatori nella tutela dei diritti dei lavoratori agricoli. Non da meno sarebbero politiche serie e condivise per arginare il grande potere delle Grandi Distribuzioni Organizzate.
Riconoscere il valore di ogni vita, che sia una donna vittima di violenza o un bracciante sacrificato sull'altare dello sfruttamento, è il primo passo verso un cambiamento culturale profondo. L'enorme divario tra la copertura mediatica di queste due realtà (femminicidio e braccianticidio) richiede una riflessione critica, non solo sulla nostra società e sulla sua cultura, ma anche sulla priorità che assegniamo alle diverse ingiustizie, adottando spesso consapevolezze a doppia velocità, facendoci guidare dall'emotività che i social, i media e parte della politica decidono di nutrire. Perché è più semplice combattere la parola 'patriarcato', troppo spesso abusata e svuotata di ogni significato politico-sociale, piuttosto che 'sfruttamento', termine che nasconde dentro di sé un significato ben più concreto e “pericolosamente” comprensibile.