In Italia siamo sempre in inverno. Non sto parlando di temperature, ma di demografia. Abbiamo sentito spesso, da più parti, la triste metafora dell'inverno demografico, riferendoci alle nascite in Italia. L’attuale popolazione italiana è di circa 59 milioni e probabilmente scenderà a 58 milioni nel 2030 e a poco più di 47 milioni nel 2070. L'Italia si sta svuotando. Ma queste sono soltanto stime, non possiamo prevedere realmente cosa accadrà e non possiamo escludere che i dati saranno anche peggiori.
Quello che sappiamo già oggi è che esiste un fenomeno che dipende anche dalla scarsità di nascite (e dico “anche” perché ci sono altri elementi che sicuramente influiscono, e poi li vedremo). Questo fenomeno è l'abbandono dei territori interni del nostro Paese, cioè tutti quei territori che si trovano lontani dalle coste e lontani dalle città, piccole o grandi che siano. È un fenomeno di cosiddetto spopolamento che, col passare del tempo, potrebbe portare al completo abbandono di quei territori: paesi e paesini di cui l'Italia è ricca, ricchissima. Questi paesi, ognuno di loro in modo diverso, sono portatori di tradizioni, di dialetti e accenti, di piccole e grandi storie che poi, in fondo, sommate tra loro hanno di fatto costruito l'intera storia generale dell'Italia. Senza questi territori, l'Italia non sarebbe l'Italia.
Per l’occasione ho voluto ascoltare il parere di Battista Sangineto, Docente di Archeologia del Paesaggio dell’Università della Calabria, a Cosenza. Ho fatto due chiacchiere con lui e la conversazione è stata interessante (nel podcast trovate anche la sua intervista). Dalle sue parole ho preso spunto per il titolo di questo podcast (L’osso e la polpa).
Poi c'è un altro fenomeno, collegato a questo, che è lo spopolamento del Sud dell'Italia. Nel mio documentario intitolato appunto Sudditalia (con due “d”) ho cercato di ripercorrere un po' di storia e un po' del presente, per cercare di capire i motivi che spingono oggi (come da sempre) i giovani a partire, a cercare la propria realizzazione più a Nord, o magari all'estero. Negli ultimi 10 anni oltre 1 milione di persone hanno lasciato il Sud per trasferirsi altrove.
Una specie di esodo che ormai nemmeno contiamo più, nemmeno ci accorgiamo che si tratta di tante, tantissime persone. Siamo ormai abituati - e quasi è scontato - che un giovane del Sud, dopo aver magari studiato fino a laurearsi, molto probabilmente si sposterà a Nord o all'estero. Il fenomeno si è talmente consolidato da oltre cent'anni, che ormai lo abbiamo interiorizzato, lo abbiamo accettato, lo abbiamo fatto nostro.
Da un vecchio video d'archivio dell'Istituto Luce ho estratto alcune parole della voce narrante, mi sembra interessante per questa occasione. Potete ascoltarlo nel podcast.
Non vi suona un po' come per dire “ forza meridionali, a Milano c'è spazio per tutti, andateci a lavorare”. Una sorta di normalizzazione dell'esodo, una specie di accettazione collettiva, con lo Stato che incentivava le partenze: bisognava andare al nord a produrre, bisognava raggiungere il nord per farlo crescere. Era lì che erano nate e si erano sviluppate le grandi fabbriche italiane. Dicevamo prima che questo fenomeno si è talmente consolidato da oltre cent'anni, che ormai lo abbiamo interiorizzato, lo abbiamo accettato, lo abbiamo fatto nostro.
Ed è questo un cambio culturale non di poca importanza. Probabilmente in passato, negli anni '50 e '60, partire per il Nord significava spezzare un legame con la propria famiglia, significava creare una lacerazione dolorosa. Anche oggi è così, ma qualcosa nel profondo della cultura è cambiato. Per una famiglia di 60 anni fa, dire che il proprio figlio o la propria figlia si erano trasferiti al Nord significava forse avere una specie di “macchia” in famiglia, una colpa di non essere riusciti a trattenere i propri figli a casa, di non essere riusciti a garantire l'unità della famiglia. Oggi invece ci si pone nella maniera opposta: si è orgogliosi che il proprio figlio abbia raggiunto Milano, o Roma, perché significa aver raggiunto la possibilità di realizzazione. C'è stato un cambio culturale vero e proprio. Se mio figlio va al Nord significa che sta facendo strada. E questo dona una specie di lustro, che evidenzia una specie di stato di benessere. È forse anche vero che la tecnologia dei cellulari ha accorciato le distanze, ci si parla, ci si vede a distanza. Non c'è più la lettera scritta che doveva viaggiare per giorni e giorni prima di raggiungere il destinatario, non c'è più la telefonata interurbana di qualche decennio fa che costava molto di più di quella urbana.
Eppure questa stessa tecnologia oggi potrebbe garantire un ritorno a casa. Lo smart-working oggi è possibile semplicemente con l’uso di un computer e con una connessione internet. Se questo è possibile, perché allora non si assiste ad un contro-esodo? Perché Milano continua ad essere meta ambita da moltissimi ragazzi e ragazze del Sud? Ma anche di tutti quei territori interni del Paese, di tutti quei paesi e paesini che arroccano i nostri monti, non solo al Sud.
Nel podcast sentirete anche la voce di Tonia Peluso, sociologa napoletana, che ho raggiunto per capire da lei i motivi che ancora oggi spingono giovani (e meno giovani) a lasciare il Sud per andare più su, a Nord.
PS: Questo è il mio primo podcast, che spero abbiate apprezzato. Sono benvenuti suggerimenti, idee e spunti di riflessione.
Una lettura consigliata per questo argomento: Le colpe del Sud di Claudio Scamardella.