L’umano nella società delle macchine
Perchè è necessario fare a meno della tecnologia. A volte.
Perché il mondo intorno a noi sembra farsi sempre più arido, intriso di egoismo e indifferenza? A volte ci sentiamo smarriti, come sospesi tra i fili di una matassa che si stringe attorno a noi, intrecciata di rancore, ambizione sfrenata e vuota superficialità. Questo è il tempo che abitiamo. Ma quale sentiero ci ha condotti fin qui? E, soprattutto, esiste ancora una via per ritrovare un’uscita?
Intanto il futuro si delinea all’orizzonte, portando con sé nuove trasformazioni. La Generazione Beta, cioè i nati tra il 2025 e il 2039 – definizione proposta da McCrindle (1), lo stesso autore che ha coniato il termine Generazione Alpha – crescerà in un mondo profondamente diverso dal nostro, e non solo per la crisi climatica che ci apprestiamo a subire.
Nel loro mondo, le auto senza guidatore diventeranno la norma e le cure mediche saranno gestite dall'intelligenza artificiale. Tutto il sistema dello studio e del lavoro sarà permeato da nuove e incredibili tecnologie. Amici, scuola, professioni: tutto verrà gestito o controllato da macchine e software che, col tempo, impareremo a conoscere e ad utilizzare, sviluppando persino un intimo bisogno indotto dalla loro stessa diffusione. Ma in un contesto così iper-tecnologico, che ne sarà dell’essere umano e del suo corpo? Quali sono le conseguenze dell’iper-tecnologizzazione di tutto ciò che ci circonda?
Abbiamo davvero sentito, da sempre, il bisogno di così tante comodità? Probabilmente no: il progresso tecnologico spesso viene imposto dall’alto, da chi detiene i capitali necessari a creare, acquisire e gestire la tecnologia. Non è un bisogno che nasce dal basso, almeno non più: lavoratori, studenti e tutti gli altri non ne fanno una richiesta esplicita. Eppure, ci ritroviamo ad adottare tecnologie che un tempo non avremmo neppure immaginato di desiderare. Ora invece le desideriamo e, se da una parte ci rendono la vita più semplice e comoda, dall'altra influenzano la nostra consapevolezza, il nostro corpo e la nostra società.
Come scrive Alberto Oliviero qui, “la mente, che si consideri il linguaggio o altre funzioni cognitive e percettive[...] è influenzata da una componente, quella motoria, che è la più antica da un punto di vista evolutivo. [...] Nel corso dell’infanzia la motricità e i giochi di movimento sono strettamente associati a una serie di ricadute cognitive che fanno capo a una notevole plasticità cerebrale”. Dovremmo quindi cominciare a chiederci se nella società iper-digitalizzata continueremo a crescere cognitivamente oppure no. Sembra però di non poter più tornare indietro, perché la tecnologia corre, la società ‘evolve’.
In questo sistema, il progresso tecnologico agisce come una forza esterna a cui le persone devono sottostare e, al tempo stesso, desiderare. È fuori discussione che sia meno usurante arare i campi con un aratro meccanizzato, più comodo inviare una mail che spedire una lettera, meno faticoso svolgere i lavori domestici con l’ausilio di lavatrici e lavastoviglie: la tecnologia non è un male, ma è capace di influenzare le nostre vite molto più di quanto appaia ad un primo sguardo.
Un esempio concreto di questa influenza è l’invenzione dell’orologio meccanico. Questa tecnologia, nata nei monasteri per misurare con precisione i momenti della preghiera, ha rappresentato una svolta nella percezione e organizzazione del tempo. Lewis Mumford ha scritto che “l'orologio non è semplicemente un mezzo per tenere traccia delle ore, ma per sincronizzare le azioni degli uomini” (2).
L’orologio ha contribuito a creare un senso collettivo di regolarità, trasformando la vita urbana e lavorativa. Se prima del suo avvento il tempo era più legato ai ritmi naturali, ora è diventato una misura oggettiva e uniforme. Lo notiamo tuttora nelle fabbriche e negli uffici, dove si richiede ai lavoratori di aderire a orari prestabiliti e di essere sempre puntuali. Questa puntualità ha influenzato la crescita economica soprattutto nelle città che in passato sono state fortemente industrializzate.
Oggi viviamo un’altra rivoluzione tecnologica, che sta cambiando rapidamente il modo in cui i nostri corpi interagiscono con il mondo e, di conseguenza, il modo in cui usiamo mani e cervello. Non è solo una questione di oggetti materiali, ma anche di spazi di vita e di lavoro. Il luogo di lavoro, che occupa buona parte della nostra giornata, definisce in parte chi siamo e ciò che possiamo o non possiamo fare.
In questo senso, la tecnologia non modifica soltanto il nostro corpo e il nostro pensiero, ma anche l’ambiente circostante, modellando la nostra identità all’interno delle comunità. L’industrializzazione ha fatto nascere intere città attorno alle fabbriche, creando nuove specializzazioni, nuovi servizi e perfino nuovi modi di interagire fra esseri umani. Tutto questo è un processo in continua evoluzione.
Ogni tecnologia porta con sé un cambiamento: non voglio giudicare se sia buono o cattivo, ma è certo che, in qualche misura, esso si rifletterà su tutti noi. Ad esempio, “il grande cambiamento nella popolazione e nell’industria che ebbe luogo nel XVIII secolo fu dovuto all’introduzione del carbone come fonte di energia meccanica” (Mumford). Non possiamo immaginare la nostra società attuale senza il carbone, che poi ha aperto la strada al petrolio. Ma queste risorse non sono infinite: il proprietario della miniera o di un giacimento di petrolio continuerà a fare profitto fino all’esaurimento, innescando un comportamento predatorio e alimentando una cultura arraffona.
Fu in quell’epoca, secondo diversi studiosi, che nacque l’atteggiamento del “guadagno rapido e cinico”, senza scrupoli per l’ecosistema e la comunità. Quell’indole è arrivata fino a noi ed è tutt’oggi la cultura dominante.
Tuttavia, in quanto specie animale e sociale, l’essere umano non agisce solo per profitto e avidità. Conservo la convinzione che, nelle nostre radici, permanga uno spirito collaborativo e altruista, più forte dell’istinto predatorio. Sostenere il contrario serve unicamente a giustificare il sistema attuale, secondo cui “l’uomo è avido di natura e quindi nulla si può cambiare.”
Al contrario, diversi studi e la semplice osservazione dei bambini dimostrano l’innato senso di equità già presente a 19 mesi. Nel libro Why We Cooperate, Michael Tomasello illustra come l’istinto a cooperare sia presente persino negli scimpanzé, suggerendo che non sia un comportamento indotto solo dalla cultura umana. D’altronde, la cooperazione è stata la nostra arma di sopravvivenza più efficace. Nelle società di cacciatori-raccoglitori, la condivisione era essenziale per la sopravvivenza del gruppo.
Se oggi viviamo in una società fortemente individualista, non è dunque per colpa della nostra natura, ma a causa di una cultura e di una tecnica incentrate quasi esclusivamente sul profitto. Pubblicità, media e norme sociali odierne promuovono costantemente l’idea che il successo si misuri in termini di ricchezza e possesso.
Eppure, a seguito di eventi avvenuti prima di noi, di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche, ci siamo ritrovati in questo scenario. Proprio come l’energia atomica può essere usata per generare elettricità pulita o per distruggere, anche gli esseri umani hanno la potenzialità di cooperare o di cadere nell’egoismo. Non siamo solo buoni o solo cattivi: possediamo entrambe le nature e sta a noi decidere quale delle due nutrire.
Ecco un’immagine che mi pare utile per concludere questa newsletter. Quando scrivo Restiamo Connessi non significa farlo necessariamente a distanza.
Fonti:
L. Mumford, Technics and Civilization, Routledge & Kagan Paul LTD, 1967
Alberto Oliviero https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/siref/article/view/5258